Carnage: ritratto di ordinaria follia
Una stanza, due coppie e tanto stress o almeno quanto basta per far scoppiare una “carneficina”. Con questi pochi e semplici elementi Roman Polanski porta in scena un’opera dal carattere fortemente psicologico, strutturalmente collocata a metà tra cinema e teatro.

La vicenda prende le mosse da una lite fra due ragazzini al parco, un mero espediente che nel corso del film diventa trascurabile, i protagonisti sono, infatti, i genitori dei due bambini, due coppie di Brooklyn che si incontrano per discutere dell’accaduto: la loro psiche e i loro rapporti saranno il fulcro della scena e ancora di più lo saranno i tipi umani che essi rappresentano.
Fatta eccezione per la scena iniziale e quella finale, tutto il film si svolge nel soggiorno dei Longstreet, dove la staticità scenografica permette alla sceneggiatura di emergere come pilastro dell’opera, portando lo spettatore davanti a una rappresentazione quasi teatrale, che ripropone (seppur esasperatamente) comportamenti domestici all’ordine del giorno, concedendo a chi guarda di allontanarsi catarticamente dalla scena, ironizzando sui personaggi che diventano specchio del pubblico stesso, il quale riconosce la propria banalità nell’impelagarsi in inutili discussioni quotidiane e, dunque, ride della propria follia.
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Si pone in evidenza fin da subito anche la contrapposizione tra le due coppie, esse provengono chiaramente da contesti sociali diversi: i Cowan (Kate Winslet e Christoph Waltz), visibilmente appartenenti a un ceto sociale più alto, appaiono freddi nei modi e nell’aspetto, e d’altronde, avvocato lui, agente finanziaria lei, non poteva essere altrimenti; i Longstreet (Jodie Foster e John C. Reilly) sono, invece, una coppia apparentemente pacata, espansiva, gentile, lei scrittrice appassionata d’arte, lui rappresentante di articoli per la casa, accolgono cordialmente a casa propria i Cowan che non sembrano contenti di essere lì, presi dai mille impegni di lavoro. Si delineano così due modelli familiari distinti e forse contrapposti, la coppia di genitori moderni, impegnati negli affari, precisissimi nel lavoro ma poco attenti alla famiglia, e la famiglia dalle sfumature conservatrici, concentrata sull’educazione e i bisogni del figlio, poco interessata alla carriera e apparentemente mediocre.
Dopo essere partito dagli aspetti di divergenza fra le due coppie, che traspaiono dai dialoghi accesi e dal linguaggio del corpo dei protagonisti, nella seconda parte del film Polanski fa emergere le individualità che fino ad allora erano rimaste nascoste all’ombra del nucleo coniugale. Se precedentemente, dunque, gli sposi avevano mantenuto una coesione per schierarsi in opposizione all’altra fazione, adesso appaiono sempre più distanti, si delineano come singole personalità, con bisogni, sentimenti e tanta polemica nei confronti del proprio andamento maritale e familiare, in un’escalation di discussioni sempre più accese che hanno come nuovo fulcro non più la lite fra i figli, ma il malcontento di coppia.
I personaggi arrivano ad essere stremati psicologicamente e fisicamente dalla discussione ininterrotta che avviene in un tempo imprecisato, contemporaneo alla visione del pubblico, con il passare dei minuti, dopo aver affrontato, litigio dopo litigio, questioni intime e personali, hanno ormai abbandonato ogni formalità e conoscendosi, adesso, meglio di chiunque altro, appaiono in realtà profondamente simili in quanto afflitti dagli stessi problemi che affliggono tutte le coppie.
L’umano appare quindi complessissimo nell’insieme degli aspetti connaturati al suo essere, ma essenzialmente banale nella replica quasi identica di questi aspetti nei singoli individui: tutti ci attribuiamo un’unicità che si palesa illusoria nello scontro con l’evidente ripetersi di schemi di comportamento predefiniti. Questi stessi schemi, tuttavia, sono l’unico appiglio che consente all’individuo di sfuggire alla solitudine esistenziale, di riconoscersi in un gruppo e, a volte, anche di sentirsi compreso, ma soprattutto concede a Polanski di regalarci un’opera simile.
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Articolo a cura di: Miriam Stillitano