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Breve storia di Pòlemos

Pòlemos è il padre di tutte le cose”, titola un frammento del filosofo greco Eraclito. Nella sua ottica, in contrasto con una classicità che apprezza l’armonia e la staticità (basti pensare alle statue che i greci ci hanno lasciato), è la personificazione della guerra, del movimento e del fervore a creare la vita, da lui concepita come un incessante scorrere. Scopo di questo articolo è esaminare il ruolo che il disaccordo e le lotte hanno ricoperto nella storia della politica.



Ad Atene, considerata il vero e proprio nucleo primordiale della civiltà occidentale, era tenuta in grande considerazione l’homonoia, cioè l’omogeneità, la concordia fra i cittadini: infatti, nella democrazia ateniese era necessario che l’assemblea ristretta (detta boulè) votasse all’unanimità le proposte da sottoporre a tutti i cittadini, i quali a loro volta miravano più a ricercare l’armonia della collettività rispetto a dare importanza all’opinione del singolo cittadino. Nonostante ciò, non va sottovalutato il ruolo che la guerra vera e propria svolgeva nella vita e nella cultura della Grecia antica: le poleis greche furono per lungo tempo in aperto conflitto le une con le altre o unite contro nemici esterni; non a caso numerosi intellettuali greci, che ci lasciarono testimonianze storiche importantissime, combatterono in prima linea nell’esercito, come i drammaturghi Sofocle ed Eschilo, lo storico Tucidide e perfino lo stesso Socrate, insieme a tanti altri.


Qualche secolo prima, in Cina, viene pubblicata un’opera che si rivelerà essere una delle pietre miliari del pensiero filosofico orientale e che ben ci fa capire il pensiero politico che animava l’Impero cinese, le cui vicende storiche ne saranno ampiamente condizionate. Questa opera è L’arte della guerra di Sun Tzu, nella quale le filosofie orientali ed il pensiero dei maggiori filosofi del Sol Levante trovano applicazione pratica: la guerra non è vista come uno scontro romantico all’ultimo sangue, nel quale si dà la vita per proteggere la Nazione, come è invece proprio della tradizione culturale occidentale, ma come una lotta fatta di stratagemmi e di inganni. Tutto ciò riprende i concetti propri delle dottrine taoiste, buddhiste e confuciane, che rinnegano la violenza e secondo le quali ogni guerra è sbagliata, e perfino a chi la causa non bisogna rispondere con la stessa violenza, ma fare in modo che essa stessa gli si rivolti contro.


Dopo le civiltà classiche, fu il cristianesimo il protagonista della storia europea per secoli e secoli. Nel V secolo il più importante filosofo cristiano, sant’Agostino, scrisse il De civitate Dei, nel quale la politica, ritenuta propria del mondo terreno, quindi impura ma al tempo stesso inevitabile, ha la funzione di mantenere l’ordine nel mondo attraverso la pace, intesa come l’ordinata concordia dei cittadini in merito al comando e all’obbedienza. Una condizione di superiorità di alcuni uomini su altri, quindi, da accettare in nome della stabilità e dell’ordine.


Questa idea di necessaria armonia, di unione forzata come unico metodo di dialogo politico funzionante, persistette, almeno in Occidente, fino all’età moderna; fu infatti solo con Niccolò Machiavelli che si iniziò ad assistere a un progressivo ribaltamento di prospettiva: nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (1531 circa) egli analizza come la civiltà romana abbia saputo incorporare dentro di sé il conflitto fra i patrizi e la plebe, che si è svolto non in mezzo alle strade con la violenza e le guerre civili, ma all’interno del corpo politico, grazie anche all’istituzione del tribunato della plebe, che rappresenta la maggioranza dei cittadini romani e impedisce che i patrizi esercitino un potere privo di contrasti. Lo scontro e il tumulto, dunque, non vengono esclusi dall’ambito istituzionale, ma ne diventano parte integrante, incanalando le energie altrimenti distruttive dei corpi sociali in una forma politica concreta.




Machiavelli, dunque, interpreta le vicende della Roma antica alla luce dei problemi della Firenze dei Medici e di Savonarola, interrogandosi sui motivi e sulle radici della sua corruzione. A differenza di quanto avveniva nell’Urbe infatti, a Firenze gli “umori” (termine medico con cui Machiavelli definisce i princìpi politici primari) configgono nel terreno privato ed extraistituzionale, avvelenandolo. Se la Repubblica fiorentina vorrà rimanere sana, dice Machiavelli, essa non dovrà neutralizzare il conflitto interno, ma farlo diventare parte integrante del proprio organismo politico.


Le idee di Machiavelli, considerato a ragione il fondatore della scienza politica moderna, hanno trovato grande applicazione e sono tutt’ora alla base delle forme di rappresentanza politica contemporanee. Se oggi è impensabile avere un’istituzione democratica nella quale è ricercata solo l’unanimità e in cui interi gruppi sociali non hanno voce, è anche per merito del letterato fiorentino.


Articolo a cura di: Elisa Matta



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