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Apollo e Dafne – l’amore fugace e la metamorfosi

A soli ventidue anni d’età, lo scultore barocco Gian Lorenzo Bernini vanta una certa fama tra il popolo italiano seicentesco, grazie alle sue notevoli capacità artistiche; tanto che proprio negli anni venti del Seicento gli viene affidato un lavoro estremamente delicato dal committente e cardinale Scipione. Il progetto ha inizio nel 1622, sarà interrotto per un’altra commissione, il David, ma riprenderà nel 1664 e sarà portato a termine l’anno successivo, verrà aiutato inoltre da Giuliano Finelli, giovane collaboratore di Carrara, per il lavoro di rifinitura delle foglie e delle radici. L’opera in questione ritrae la scena più importante del mito “Apollo e Dafne”, contenuto nelle Metamorfosi scritte dal poeta latino Ovidio agli inizi del I sec d.C, ovvero l’inseguimento e il compimento della metamorfosi.



Ma prima è doveroso inoltrarsi alla scoperta del mito in questione, così da capire bene le scelte artistiche e il lavoro che vi verte attorno. Ebbene…dopo aver sconfitto il serpente Pitone, il dio greco Apollo (dio del sole, della musica e della poesia) si pavoneggiò con Eros (dio dell’amore) per aver portato a termine con successo l’impresa e come se non bastasse si prese gioco di lui per non aver mai fatto altrettanto. Il dio dell’amore, offeso e oltraggiato, mise in atto una vendetta: scagliò una freccia dalla punta d’oro ad Apollo, freccia che lo farà innamorare perdutamente di un’incantevole fanciulla. Ma il tranello stette nella seconda freccia la cui punta fu realizzata in piombo. Fu Dafne, ninfa e figlia del dio del fiume Peneo, ad essere colpita dal dardo, che provocò però l’effetto contrario – paura, repulsione, disgusto. Il dio del sole si precipitò all’inseguimento della bella ninfa, che spaventata scappò con tutte le sue forze. Ma ella, rendendosi conto che mai avrebbe potuto vincere la corsa, chiese aiuto al fiume, suo padre. Pregò affinché potesse essere trasformata in qualcosa che sopperisse all’amore non corrisposto. Egli l’accontentò trasformandola in un albero, precisamente in alloro. Il dio, disperato per l’accaduto, abbracciò la pianta che in seguito proclamerà sacra al suo culto, inoltre venne riconosciuta come segno nonché simbolo di gloria, da porre sul capo degli uomini per proclamarli i vincitori e meritevoli di grazia. Tutt’oggi la tradizione è portata avanti!



La scena risulta spettacolare e terribile allo stesso tempo, a seconda del punto di vista che si vuole assumere. È rappresentato un principio di dinamismo per quanto riguarda la velocità, ma anche la cattura dell’attimo preciso del mito oltre alla cattura di Dafne. Si può percepire il dinamismo del Dio se si pone l’attenzione sul suo mantello, rigonfiato e avvolto al corpo dando appunto l’idea di una reale velocità e dai capelli scompigliati. Il corpo nudo di Apollo mostra i muscoli e i tendini contratti per lo sforzo finale, il corpo compie una rotazione e si sbilancia in avanti per afferrare la ninfa con il braccio destro, mentre con quello sinistro tenta di mantenere l’equilibrio. Il peso poggia principalmente sul piede destro saldamente a terra, più avanti rispetto l’altro. Il viso è stanco per la corsa ma anche disperato di non riuscire a raggiungerla in tempo, la bocca leggermente aperta dà l’idea dell’ansimare per la fatica e il desiderio. Il corpo di Dafne, a differenza di quello di Apollo, è nudo, morbido, elegante e sinuoso, pur utilizzando un materiale duro come il marmo, Bernini è riuscito a creare l’illusione di una pelle delicata e sottile. È inarcato verso l’esterno nel tentativo di allontanarsi per sfuggire alle grinfie di quell’amore non corrisposto, nel frattempo si compie la metamorfosi; le unghie si allungano verso il basso diventando radici, le braccia al contrario si diramano verso l’alto trasformandosi in rami rigogliosi. Il viso di Dafne è leggermente girato per controllare il suo predatore, ha la bocca aperta, l’espressione è ambivalente: ritrae il senso di angoscia e disperazione per essere stata raggiunta, ma a contempo il sollievo per non dover diventare proprietà di qualcuno che non desidera.


Una particolarità di quest’opera è l’effetto di chiaroscuro, tipicamente proprio di opere pittoriche, realizzato grazie alla contrapposizione e l’alternazione di sezioni piene e sezioni vuote. Questo di conseguenza ha generato giochi di luce, un magnifico spettacolo agli occhi dello spettatore. L’opera, successivamente, ebbe talmente successo che Papa Urbano VII decise di porre un’inserzione sul lato anteriore del piedistallo un cartiglio, sulla quale venne incisa la seguente frase: “Quisquis amans sequitur fugitivae gaudia formae fronde manus implet baccas seu carpit amaras”, ovvero “Chi amando insegue le gioie della bellezza fugace riempie la mano di fronde e coglie bacche amare”. Questo per dare un significato morale cristiano ad una scultura riguardante la mitologia greca, dunque pagana.


Articolo a cura di: Matilda Balboni



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