A Taxi driver: l’agrodolce favola sudcoreana
Il tassista, figura universalmente legata all’immaginario cinematografico, accompagna alcune delle più illustri pellicole di successo, fra le quali certamente primeggia il “Taxi Driver” diretto da Martin Scorsese e interpretato da Robert De Niro. Sebbene il celebre lungometraggio dai toni noir e introspettivi si riveli tutt’oggi impareggiabile, vi è forse un suo degno successore, capace di rileggere e valorizzare in chiave del tutto inedita la sopracitata figura.
A Taxi driver, diretto da Jang Hoon, catapulta lo spettatore in una Corea del Sud alle porte degli anni ’80, subito dopo il crollo della quasi ventennale dittatura del governatore autoritario Park Chung-hee. Il paese è animato da un inedito fervore e spirito politico: la popolazione, difatti, reclama a gran voce i diritti democratici che si insediarono solo tardivamente nella compagine sudcoreana. In questo scenario estremamente complesso e delicato, tuttavia, l’opera decide di mostrarsi inizialmente come una favola dal tono scanzonato, il cui semi-anonimo personaggio chiave, appare ben distante dal tono solenne che presto assumerà la pellicola. Kim Man-seob (noto anche come Kim Sa-Bok) è un semplice tassista, particolarmente legato alla sua vettura e con un background in Arabia Saudita che gli ha permesso di imparare i rudimenti della lingua inglese. Il protagonista, interpretato dal magistrale Song Kang-Ho (ultimamente apprezzato per la sua performance in “Parasite”), è inoltre un padre molto attento e premuroso, la cui moglie è scomparsa prematuramente.

La vita di Kim, dal carattere alquanto scorbutico ed a tratti frivolo, sarà scossa dall’incontro con il giornalista tedesco, di stanza in Giappone, Jürgen Hintzpeter, al quale offrirà un passaggio lautamente retribuito – sostituendo con l’inganno il collega incaricato – da Seoul verso la cittadina di Gwangju. L’obiettivo iniziale dell’irriverente protagonista è poter saldare il proprio debito con l’inflessibile affittuaria, ignaro del disastro nel quale si sta involontariamente fiondando. Il suo cliente, infatti, avvisato di una insurrezione popolare sedata con la violenza, intende recarsi presso l’area interessata per conquistare l’opportunità di eludere la censura governativa e diffondere la notizia all’estero. Ciò che scopriranno una volta giunti nella cittadina sudcoreana, dopo aver addirittura aggirato alcuni presidi militari utili a bloccarne l’accesso, è inimmaginabile: la piccola protesta guidata da universitari presuntuosi immaginata da Kim, o la cosiddetta rivolta comunista, si palesa ben presto come l’inferno; avvalendosi della legge marziale, le forze armate frenano con inaudita veemenza le manifestazioni, sfociando in degli atti di illegittima brutalità rivolta verso la popolazione civile, falcidiata con armamenti ingiustificabili in un simile contesto.
La pellicola di Jang Hoon ripropone attraverso una favola svelatasi, a dir poco, agrodolce e che si avvale di alcuni elementi di finzione, la rivolta realmente verificatasi a Gwangju a partire dal cinque maggio (5·18) del 1980 e scaturita dall’improvvisa chiusura della Chonnam National University (Cnu). Sono piuttosto esigue le documentazioni che ritraggono le atrocità lì perpetrate e fra queste certamente spicca proprio la testimonianza di Hintzpeter, che solo grazie ad un astuto stratagemma riuscì a sfuggire al massacro e a contrabbandare i dieci rotoli di pellicola che poco dopo mostrarono al mondo intero la tragedia umanitaria al quale il giornalista coraggiosamente assistette e che lo segnò definitivamente. Il reporter manifestò spesso negli anni a venire, il desiderio di poter incontrare ancora una volta il misterioso “Signor Kim” del quale non conobbe mai il vero nome, ma con cui condivise un’esperienza tristemente indimenticabile che l’opera sudcoreana si sforza di trasmettere, pregna di potenza espressiva, allo spettatore.
Jang Hoon si dimostra, dunque, un esegeta capace e credibile di una tradizione e cultura a lungo ignorate, specialmente nello scacchiere socioculturale occidentale, realizzando un’opera mai banale, ma che anzi riflette attentamente sulle terribili conseguenze che la repressione dei diritti inalienabili dell’uomo comportano, lasciando ampio spazio al sentimento di speranza e fratellanza che può sbocciare anche in questo genere di contesto, legando indissolubilmente individui solo apparentemente distanti.
Articolo a cura di: Antonino Palumbo